Orvieto, viaggio nella storia dell’arte e del vino
Signorelli, il vino: un episodio che racconta una città. Il pittore di Cortona, considerato uno dei massimi interpreti della pittura rinascimentale, fu pagato in vino per la decorazione della Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto. Una meraviglia studiata dallo stesso Michelangelo prima di decorare la Cappella Sistina.
La storia racconta, appunto, un legame. E riassume i principali contenuti dell’offerta turistica grazie alla quale la città degli etruschi si candida a capitale italiana della cultura nel 2025: arte, storia, territorio e buona tavola, testimoniata quest’ultima dalle numerose trattorie sempre affollate, in un trionfo di carne, salsicce e pasta (i tipici umbrichelli, parenti dei pici toscani) alla amatriciana, all’arrabbiata, alla carbonara o al tartufo. Una candidatura basata sul buon vivere e su tanti gioielli, scoperti dai giornalisti della stampa turistica, Italian Travel Press (ITP), approdati in questa zona incastonata fra Umbria, Toscana e Lazio per partecipare al primo convegno dell’associazione: “Raccontare il territorio attraverso i suoi vini, Piccolo vademecum per giornalisti 4.0 per comunicare al meglio l’Italia della bellezza e delle identità vitivinicole”.
Un’occasione per partire proprio da qui, a pochi chilometri da Orvieto. Siamo a Castiglione in Teverina, dove sorge il Muvis, museo del vino e delle scienze agroalimentari. La sede scende fino a quattro piani sotterranei, per arrivare a 26 metri sotto terra nella “cattedrale”, che custodisce le più grandi botti: risalgono al 1942 e contenevano fino a 27mila litri di vino. Il complesso era la sede dell’impero enologico dell’imprenditore romano, il conte Romolo Vaselli, che negli anni Quaranta acquistò le cantine da un altro nobile e le rimodernò, avviando una produzione di qualità. I vini, in particolare l’Orvieto classico doc Vaselli e il Sangiovese Santa Giulia, insieme a spumante, vermouth e aceto, portarono al successo il marchio fino al 1994, quando l’azienda cessò l’attività. Qui lavorava Riccardo Cotarella, oggi l’enologo più famoso del Paese. Ora le cantine ospitano il Muvis, celebre museo del vino, mentre il resto del complesso è diventato il cuore di una grande scommessa della famiglia Cotarella: Intrecci. Qui Dominga, figlia di Riccardo e nipote di Renzo, guida l’Accademia di Sala e Accoglienza rivolta all’alta ristorazione, un percorso di 12 mesi riservato ai giovani che si conclude con un tirocinio nelle più note strutture della ristorazione.
A cinque minuti c’è la tenuta di Montecchio della famiglia Cotarella, che lega il suo nome a quelli dei fratelli Riccardo e Renzo e alle nuove generazioni: Dominga, Marta ed Enrica. Un brand che raccoglie il meglio della produzione e tutte le competenze negli anni: partendo da Falesco ed arrivando a Cotarella, passando per Le Macioche, tenuta nel cuore del Brunello di Montalcino, e Liaison. La Cantina di Montecchio è circondata da circa 260 ettari piantati a Merlot, Cabernet, Sangiovese, Verdicchio e Vermentino, oltre a numerose varietà sperimentali. La zona compresa tra Montefiascone e il Lago di Bolsena, in provincia di Viterbo, accoglie invece i vigneti storici dell’azienda su cui si coltivano i vitigni autoctoni Roscetto, Aleatico, Trebbiano e Malvasia, e alcune varietà internazionali, come Merlot, Syrah e Viognier.
Ma questa non è solo la terra del vino. Da qui passarono gli etruschi e i papi, come si legge nell’architettura della città, dove il palazzo Piccolomini, famiglia di papi, è diventato un tranquillo hotel a 4 stelle protetto dalle Belle arti, mentre il Duomo testimonia storie di miracoli, come quello di Bolsena. La grande fabbrica fu avviata nel 1290 per volontà di papa Niccolò IV per creare un’unica grande cattedrale al posto delle due chiese preesistenti sulla piazza. Un’opera monumentale durata secoli: solo alla facciata dedicata alla storia di Maria, un capolavoro di mosaici e bassorilievi, lavorarono una ventina di artisti. All’interno, sulla sinistra c’è la trecentesca Cappella del Corporale, custode del miracolo del Corpus domini. Conserva infatti la preziosa reliquia del lino insanguinato macchiatosi del sangue sprizzato dall’ostia durante la celebre messa di Bolsena. Un miracolo che a Orvieto si celebra nella Pentecoste, con l’infiorata dentro le chiese del centro storico. A destra la cappella di San Brizio, decorata un secolo dopo da Signorelli, che subentrò al Beato Angelico reinterpretando le Storie dell’Apocalisse e della Divina Commedia. Proprio quest’anno l’Umbria ricorda i cinque secoli dalla morte di due suoi grandi artisti, Luca Signorelli e Pietro Vannucci, detto il Perugino.
Ma Orvieto è soprattutto la città degli etruschi, come testimoniano i preziosi reperti custoditi dal museo Faina, che sorge proprio di fronte al Duomo e rappresenta una delle maggiori raccolte archeologiche italiane. Accoglie un monetiere composto da oltre tremila monete, reperti preistorici e protostorici, buccheri, vasi figurati etruschi, bronzi e gioielli. Di grande importanza una serie di vasi attici a figure nere e a figure rosse attribuiti ai maggiori ceramisti di Atene.
La storia secolare della città è raccontata anche nelle sue viscere di tufo. Il pozzo di San Patrizio, sorprendente opera di ingegneria voluta durante il sacco di Roma (1527) dal papa in fuga Clemente VII e inserita fra i Musei dell’Acqua dell’Unesco, è profondo 70 metri. Il papa si era rifugiato nell’imprendibile rocca e per rifornire la città di acqua e resistere all’assedio, decise di mettere mano a questa imponente opera. Il pozzo ha le scale a doppia elica che arrivano fino al livello dell’acqua per poi risalire. Oggi è ancora percorribile, ha un’illuminazione suggestiva, ed è al centro di tante manifestazioni, a partire dalla festa di San Patrizio. La visita della città nascosta si conclude attraverso Orvieto underground, le fornaci del Pozzo della Cava, le cisterne etrusche del Labirinto di Adriano e i sotterranei della chiesa di Sant’Andrea.
E in attesa di conoscere la città da vicino, oggi c’è il Metaverso: Orvieto è stata la prima ad entrare nella geografia virtuale.
Monica Guzzi