ITP per la Romagna | Cesenatico: il Museo della Marineria luogo della tradizione adriatica da tramandare
Sì, davvero questo non è un museo come gli altri. Ad avvisare i visitatori è proprio un cartello posto all’ingresso della bella area espositiva, un pezzo d’architettura che già da solo merita di essere visto. E comunque il Museo della Marineria di Cesenatico è in qualche modo un luogo della tradizione da tramandare e da mostrare con orgoglio. Qui dentro l’anima delle cose è fatta di materia perché la sua mission è la conoscenza delle testimonianze della marineria tradizionale di Cesenato e dell’Adriatico. Siamo andati a vedere.
Giovanni Bosi
Lungo la riviera ravennate, Cesenatico è una perla. Per la sua qualità, per la sua predisposizione all’accoglienza, per l’essere un alfiere della vita di mare. Non solo pensando all’estate, quando le sue spiagge si affollano di turisti, ma nel senso del lavoro: pescatori, pescherecci, pesce. Il luogo più emblematico è in questo senso il Museo della Marineria, dove sono gli oggetti a raccontare la loro storia e quella di chi li ha maneggiati o manovrati. Un museo che non è solo al chiuso, ma è pure open air, grazie al porto-canale che è il posto più naturale per completare la conoscenza. Un Museo romantico insomma, dove al profumo del mare si accompagna quello dei legni.
“Raccogliamo e promuoviamo la conoscenza delle testimonianze della marineria tradizionale di Cesenato e dell’Adriatico – ci spiega il direttore Davide Gnola – attraverso una Sezione a terra, con il padiglione museo, la sala convegni, le sale per mostre didattiche, le aule didattiche; una Sezione Galleggiante, con le barche in mostra statica, e il Porto Museo oltre al ponte, dove sono ormeggiate le barche tradizionali ancora naviganti”. Nato nel 1977, il Museo della Marineria è stato un antesignano di temi come paesaggio, patrimonio immateriale, ecomuseo, tradizione, mettendo a fuoco un’idea progettuale fondata su una stretta relazione tra il luogo espositivo e il centro storico, la comunità, il paesaggio culturale marittimo, e l’attenzione al patrimonio materiale insieme a quello immateriale. L’esperienza e i racconti dei lupi di mare (ma anche delle loro donne, che a terra svolgevano un lavoro imprescindibile) e i gli arnesi usati, a partire dalle barche.
La visita si declina così in un’esperienza a tutto tondo: “Con il rispetto dovuto a tutti i testimoni del passato – aggiunge il direttore Davide Gnola – potete toccare gli scafi, i legni, gli oggetti esposti. Loro non si offenderanno, e forse, anche attraverso le vostre mani, qualcosa verrà tramandato. Questi oggetti non sono gelosi, anzi come capita alle persose anziate, hanno il piacere di raccontare la loro storia. Questi oggetti hanno lavorato molto e ne portano ancora i segni…”. A partire dalle ancore, strumenti indispensabili per tenere arrestato uno scafo (sono esposti esempi dell’evoluzione dell’ancora dall’antichità ai giorni nostri, e alcuni relitti risalenti al XVIII e XIX secolo); e poi gli immancabili nodi; cime e bozzelli (il nome marinaro della carrucola, ridurre considerevolmente la forza necessaria a sollevare pesi o a compiere manovre con le attrezzature veliche); i timoni per le barche tradizionali adriatiche, prive di chiglia, e dunque molto ampio e profondo; le vele, che sulle barche dell’alto e media Adriatico predominavano con il modello “vela al terzo””, di forma trapezoidale, così chiamata perché tesa tra due pennoni, fissati all’albero a un terzo della loro lunghezza; i motori, perché oltre che con le vele, le barche venivano mosse, specie nelle acque interne, anche con il traino, la spinta e i remi. Intorno agli anni ‘30 del Novecento sulle barche hanno fatto la loro comparsa i primi motori, che progressivamente hanno sostituito le vele provocando la scomparsa delle tipologie tradizionali degli scafi.
Nel museo il posto centrale è assegnato al “Cidia” e al “Vigo”, un trabaccolo e un bragozzo, le due tipologie di scafi che hanno costituito il cardine dell’epopea della marineria a vela dell’alto e medio Adriatico. Restaurandoli si è cercato di evitare ogni intervento superfluo per mostrare gli scafi nella loro nuda e primitiva bellezza; i reperti che li attorniano raccontano il resto della storia: come una barca nasceva, come lavorava, come cambiava e come infine moriva. Al piano superiore si incontrano gli uomini che con queste barche, e di esse, hanno vissuto: per sapere chi erano e come vivevano, come riuscivano ad affrontare un mestiere insieme umile e pauroso, a raccoglierne quotidianamente la sfida e quasi sempre – non sempre – a vincerla.
Il “Cidia”
Trabaccolo da pesca: costruito a Fano nel 1921 dal cantiere Persini utilizzando legno di quercia per la chiglia, le ordinate e il fasciame, e larice per la coperta. Il timone, gli alberi e le mabovre, mancanti, sono stati ripristinati in fase di restauro. Lo scafo è lungo 11 metri per una larghezza di 3,20 metri e una stazza lorda di 8,72 tonnellate. Costruito per la navigazione a vela, negli anni ’70 fu adattato per ospitare un motore diesel da 80 cavalli, che venne alloggiato nella sezione centrale della stiva: a poppa è chiaramente visibile l’uscita dell’asse dell’elica, passante per la chiglia. A dritta (destra) sono appesi due parabordi di corda, che servivano a proteggiare la fiancata dagli urti.
Il “Vigo”
Bragozzo da pesca: costruito a Chioggia nel 1921, ancora attivo negli anni ’70, naufragò al largo di Rimini in seguito a un violento fortunale.Dopo il recupero è stato sottoposto a restauro insieme al trabaccolo “Cidia” nell’inverno 2003-2004, con il ripristino del timone, degli alberi, dell’attrezzattura e di parte della coperta. Lo scafo, in legno di quercia e larice, è lungo 11,20 metri e largo 3, per una stazza lorda di 5,66 tonnellate. Ha navigato esclusivamente a vela fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando fu dotato di un motore diesel da 31 cavalli, Lo speccio di poppa è sprovvisto di fasciame nel punto in cui la barca, durante il naufragio, ha urtato sul fondale.
Il Porto Canale Leonardesco è una naturale estensione del museo indoor ed è esso stesso un elemento che ha molto da raccontare. Intorno a questo luogo si è svolta la storia di Cesenatico e della sua comunità: aperto nei primi anni del quattordicesimo secolo dalla vicina città di Cesena per avere accesso al mare, si è sviluppato rapidamente ospitando mercanti, soldati e pellegrini. E nel 1502 Leonardo da Vinci ne ha realizzato il rilievo e un disegno su incarico di Cesare Borgia.
Anche quando i traffici marittimi si sono estesi oltre il Mediterraneo, il Porto di Cesenatico è rimasto uno scalo molto frequentato per il cabotaggio con Istria e Dalmazia, per poi diventare uno dei principali porti pescherecci dell’Adriatico. Oggi il Porto Canale Leonardesco è ancora al centro della vita sociale dei cittadini e dei turisti: le sue banchine sono la vera piazza cittadina, in qualsiasi periodo dell’anno.